“Da Hallelujah a The Last Goodbye” di Dave Lory è il titolo della biografia dedicata al cantautore Jeff Buckley, in uscita per la prima volta in Italia mercoledì 26 giugno per Il Castello marchio Chinaski Edizioni.
Il manager e amico del protagonista Dave Lory rivela al grande pubblico l’universo del musicista statunitense, da una prospettiva unica e privilegiata. Un viaggio letterario che coinvolge soprattutto gli addetti ai lavori del suo entourage, dagli esordi fino al tragico ed improvviso epilogo. Discografici, avvocati, musicisti, fonici, fotografi e tutta la filiera del music biz, contribuisce al libro con un personale aneddoto, una vicenda mai raccontata prima, restituendo al lettore quella che era una figura complessa e controversa.
Lory assieme al giornalista Jim Irvin, riporta in prima persona le giornate e i viaggi con Jeff. Il lettore vive in prima persona prove, sessioni di studio, contratti e strategie promozionali attraverso il punto di vista tutt’altro che distaccato di Lory. Dettagli, pensieri e preoccupazioni di un manager, la cui figura si andrà ad evolvere nel tempo diventando una sorta di padre adottivo per l’eccentrico Jeff. Quel padre che non ha mai avuto. Proprio il difficile rapporto con il padre, o meglio con il paragone che subiva con il genitore Tim, è uno degli argomenti portanti del libro. Amato cantautore che aveva abbandonato lui e la madre in tenera età, per morire poi di overdose. Questo tormentato confronto sarà per sempre uno dei topic della sua vita e della sua carriera. “Non ho niente a che fare con mio padre” dichiarava Jeff, rinunciando del tutto agli assegni derivanti dai suoi diritti d’autore. Un background musicale che spaziava dal metal anni ’80 alla musica indiana, alla raffinata abilità come chitarrista e come arrangiatore. Se Buckley definiva il musicista pakistano Nusrat Fateh Ali Khan “il mio Elvis”, non è un segreto che fosse innamorato della cantante dei Cocteau Twins Elisabeth Fraser, ma non tutti sanno che una volta disse no al suo mito chitarristico Jimmy Page che gli chiedeva di aprire un concerto. Le prime esibizioni nei locali, come nel bar irlandese Sin-è a New York che diventeranno le tracce del suo primo EP.
L’ingaggio in quel locale, dove lavorava come barista Sinéad O’Connor, fu procurato dal chitarrista dei The Commitments Glen Hansard. La registrazione di quel disco dal vivo fu realizzata a insaputa del protagonista: il locale, infatti, fu cablato di nascosto, così Buckley non si sarebbe sentito sotto pressione ed avrebbe suonato rilassato. La vita e la carriera di Jeff erano un continuo di alti e bassi, entusiasmi e delusioni, grandi certezze e improvvisi ripensamenti. Con il primo album “Grace” il successo di massa arriva in un attimo e da lì il rapporto con i fan e con la fama diventa complesso. In un attimo era sulla bocca di tutti, così Paul McCartney si auto invitava ad un suo concerto, Barbara Streisand lo voleva per un suo film e i Radiohead furono illuminati da un suo concerto per riprendere le registrazioni del loro secondo album “The Bends”. Buckley era noto anche per avere la capacità di riprodurre perfettamente cantando tutto quello che ascoltava, dei colleghi poi riusciva ad imitare anche il tono, gli accenti e le cadenze. Una volta durante un concerto cantò “Grace” esattamente come l’avrebbe cantata Bob Dylan, ma questo informato dei fatti andò su tutte le furie, nonostante il gesto di Jeff fosse un tributo rivolto al suo eroe. Le registrazioni del suo secondo album “Sketches for My Sweetheart the Drunk”, come noto, s’interruppero a causa di un’incidente dove il cantante rimase ucciso. Evento che suscitò enorme scalpore e speculazioni mediatiche in tutto il mondo. L’autore che ha sempre escluso il motivo del suicidio o un abuso di sostanze, ci lascia con una personale osservazione non priva di un velato senso di colpa. Secondo Lory, infatti, il gesto di Buckley non è stato in alcun modo volontario, ma semplicemente ne aveva sottovalutato le conseguenze.
Luca Bramanti
Ufficio Stampa Nextpress