Liminal è un concetto applicabile a diversi campi della conoscenza, dalla psicologia (liminal thinking), all’antropologia, se non anche all’architettura e alla filosofia. In architettura è uno spazio interstiziale che si trova tra due porte, una di uscita da un luogo, e una di entrata in un altro luogo. E’ quindi una dimensione intermedia tra due stati ben precisi ma indipendente da essi. La nozione di “liminalità” rimanda a un testo del 1909 dell’antropologo Arnold van Gennep sui riti di passaggio. Impegnato nello studio sistematico delle pratiche rituali, l’autore ne individua le forme specifiche e coglie una dinamica invariante nello strutturarsi dei riti di passaggio. Nella sostanza, si danno nel rito di passaggio due soglie, due limiti che segnano l’uscita da uno stato e l’ingresso nel successivo, e uno spazio liminale, un margine in cui il protagonista del rito vive una doppia sospensione. Ecco che prende quindi forma la condizione umana dell’essere tra il “non più” e il “non ancora”.
Safir Nou riprende tale concetto per descrivere una dimensione di passaggio. L’essere sospeso tra un’identità precedente e un identità futura, la ricerca di una condizione altra, un sentimento non risolto, una parola non detta, il viaggio, la migrazione. Tutto questo è Liminal.
E’ liberamente ispirato al romanzo “Marinai Perduti” di Jean Claude Izzo. I marinai, assettati di avventura, si trovano intrappolati per lungo tempo nel porto di Marsiglia, e la narrazione si dispiega attraverso i loro racconti il cui tema principale è la libertà. Qui il mare diventa un rituale, un grembo che accoglie uno stato di piena libertà ma allo stesso tempo di abbandono e lontananza, uno spazio interstiziale senza meta. Questo capitolo racconta la costante ricerca della libertà, della dimensione di sospensione dell’essere, tra le onde, lungo un ambiente di passaggio. Come le onde, la musica accompagna il viaggio su ritmi costanti, delle volte cullanti, altre volte più incalzanti. La musica dipinge costantemente tonalità di blu, lungo un continuo sviluppo di armonie, melodie e ritmiche che descrivono uno stato di sospensione costruito sugli scambi di chitarra classica, percussioni, contrabbasso, violino, violoncello, fisarmonica e sonarità elettroniche. Il disco si dispiega su sei brani: Port X, luogo immaginario di partenza verso il mare aperto (luogo non troppo immaginario, poiché il nome è anche anagramma di Portixeddu – borgo di pescatori nel Sud-Ovest della Sardegna, luogo di residenza dell’autore); Liminal Sail, il cui sviluppo ritmico ricorda il ritmo costante delle onde; Escape, che racconta il travaglio, la perdizione, la fuga; Reflections, momento del disco più intimo e sospeso in cui ci si lascia andare al cullare del ritmo delle onde; Shine, momento di luce e speranza; Almoust Home, il desiderio (latente o fugace) del ritorno a casa.
Capitolo 2 Sands racconta il deserto quale dimensione liminale.
E’ liberamente ispirato al romanzo biografico “Il deserto non ha cielo” di Lamine Ceesay, che documenta il viaggio di un migrante dal Gambia all’Italia, ma è anche un tentativo di raccontare il coraggio, la fuga, la speranza di tutti i migranti. L’essere “non più” e contemporaneamente “non ancora” è ontologicamente una condizione di liminalità per il migrante. In questo caso, il viaggio è spinto dalla speranza, dalla ricerca di una condizione altra, per una meta incerta e non chiara. Il disco è composto da 6 brani che non seguono una narrazione lineare, piuttosto descrivono immagini, sensazioni, stati d’animo e luoghi di migranti. La musica dipinge tonalità di giallo, è arida, psichedelica, a tratti malinconica, a tratti incalzata da ritmi di danza propiziatoria. Il disco prende forma e si sviluppa a partire dal suono del vento e della sabbia che si fondono fino a creare ritmo e armonia. Descrive dei luoghi ben precisi e si ispira alle musiche che nascono proprio in nei luoghi che intitolano i brani. Così si sentono riecheggiare modalità sonore ispirate al blues del deserto, alla musica tradizionale del popolo nomade dei Tuareg, ma anche musiche del mediterraneo, tutto però costantemente sorretto da un senso di sospensione, di attesa, di fatica e di speranza. Il disco inizia con Desert Walk che ci proietta in un ambientazione sonora arida e ipnotica; Sahel ci porta nel deserto sahariano, quella fascia geografica straziata dalle guerre e dai conflitti religiosi; prosegue con Arenas che in sardo significa sabbie, ma è anche un luogo, un villaggio minerario abbandonato nei monti del Sud ovest della Sardegna, nel quale la dimensione di passaggio viene declinata in una danza alimentata dalla forza vitale della natura; The way to Lampedusa è il brano che esplicitamente descrive il viaggio migratorio, scandito da voci e sospiri e da un crescendo ritmico che sottolinea la fatica e la speranza dei migranti; Sandstorm ci proietta all’interno di una tempesta sonora dai colori acustici e elettronici; infine Hotel Tindouf è dedicata ai migranti di etnia Saharawi che si trovano nel campo nomadi Tindouf esistente da 40 anni nel sud dell’Algeria, fuggiti dalle loro terre dopo l’invasione Marocchina nel Sahara sud-occidentale, separati da esse da un confine tracciato da mine antiuomo e controllato dall’esercito marocchino.
Si ringrazia per i consigli e il supporto artistico: Matteo Gallus e Riccardo Aresti.
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