Omar Pedrini è una figura chiave della storia recente di quel fenomeno culturale ed artistico che possiamo chiamare “Rock italiano”…
Ciao Omar. Sono curioso. Come ti avvicini alla musica, e quando incontri il Rock?
Ultimamente sento spesso che i giornalisti mi nominano “pioniere del Rock Italiano”… A me fa piacere, ma mi fa sentire un po’ vecchio. Ho un credito con il destino e con quel signore lassù [ride]…
La musica ha sempre fatto parte della mia vita. Perché il mio bisnonno materno era un liutaio, costruiva mandolini e insegnava clarinetto… mia nonna, sua figlia Nina, suonava la chitarra e sposò il trombettista della banda del paese. Mia mamma con una bellissima voce, cantava alle feste di paese. Eravamo tutti operai, hobbisti… Cantavamo in casa. C’era anche zio Guido, suo fratello, che suonava la chitarra. A casa rifacevamo i Nomadi, l’Equipe 84, i Dik Dik. Io a 5 anni stavo lì con loro e suonavo già la chitarra. Nella mia biografia, “Cane sciolto” [2017], c’è una bella foto di me a quell’età al mio primo saggio… Posso dire con De André che dove finiscono le mie dita comincia sempre una chitarra. Anche i miei figli suonano già tutti e due. Anche la piccolina. Evidentemente è una cosa genetica. Quello che diciamo da un genitore all’altro, a partire dal mio bisnonno, è “impara la musica, perché con la musica non sarai mai solo”. Questa è la frase portante…
Il rock lo incontro a dieci, undici anni coi primi dischi che sentivo da papà di Elvis, di Celentano in particolare, che faceva rock and roll, e mi innamorai. Tant’è che a tredici anni volli cambiare la mia acustica in elettrica. Ed era anche l’età del motorino, perché tutti i miei coetanei volevano il motorino. Papà mi disse: “Posso prenderti o il motorino o la chitarra elettrica, non chiedermeli tutti e due perché non posso”. Io scelsi la chitarra elettrica! Andai in pulmino fino a diciotto anni. I compagni ci prendevano un po’ in giro a me, Enrico Ghedi e Carlo Alberto Pellegrini (i futuri Timoria). Eravamo al liceo classico insieme, a Brescia. E ci dicevamo che ci saremmo presi una rivincita su quelli che andavano alle feste. Noi eravamo sempre in sala prove. Timoria, infatti, vuol dire “vendetta” in greco.
– I Timoria si affermano in un periodo di grande rivincita/resistenza della musica indipendente sullo star system. Penso alla scena grunge, ai Red Hot Chili Pepper, ai Rage Against The Machine, a Jeff Buckley, ai Radiohead, agli Oasis. In Italia voi, i Marlene Kuntz, gli Afterhours, i 99 Posse, i 24 Grana, Gli Articolo 31, i Verdena.
Come nascono i Timoria?
Tutto è nato per caso. Sui banchi del liceo. Eravamo al Ginnasio insieme. Io, Enrico Ghedi (il tastierista) e Carlo Alberto pellegrini (il bassista) detto “llorca”. In una versione trovammo questa parola, Timoria – “vendetta” in greco –. Questo nome era la nostra vendetta nei confronti del sistema. I Timoria nascono ad una festa della scuola…
– Vi sentivate di far parte di una tribù con gli altri gruppi della scena alternativa? C’era unità, collaborazione…?
Io non ho mai amato le “scene”. Non ho mai fatto parte della scena milanese, nemmeno della scena bresciana. Sono un cane sciolto, anarchico sia politicamente che musicalmente. Però, credo, negli anni ’90 abbiamo tutti fatto un bel gruppo. A partire da noi e i Litfiba, che sono un po’ l’anello di congiunzione tra la new wave italiana e il rock italiano, portavamo avanti questo. Si suonava spesso insieme. C’era questa volontà. Il mio Brescia Music Art lo testimoniava…
– Immagino che una band sia come una grande famiglia. Raccontaci del perché l’esperienza dei Timoria sia finita…
Coi Timoria è finita perché abbiamo raggiunto tutti i nostri obiettivi. Con il film “Un Aldo qualunque”, la cui colonna sonora portammo a San Remo ottenendo l’ultimo posto [ride]… Con Fabio De Luigi, Neri Marcoré, Giovanni Battiston feci questo film dove io ero don Luigi. Mi chiesero di fare anche la colonna sonora. Io la scrissi, la interpretarono i Timoria. Col cinema toccammo tutte le arti. Ecco, sentimmo come un traguardo l’arrivo della Settima Arte, e decidemmo che era giusto scioglierci perché avevamo detto tutto. Ricordo che iniziavano i primi malumori, e io dissi: “Sciogliamoci finché siamo ancora amici”. Così facemmo e questo è bello perché abbiamo ancora un buon rapporto tra di noi. Educato, rispettoso. E io in particolare con il Maestro Ghedi… E’ finita meglio di come fosse finita con Renga sette, otto anni prima.
– La vostra è una carriera lunga e importante. Dall’87 al 2003 (?)… A quale o quali album ti senti particolarmente legato?
Tutto è nato per caso. Esordimmo nell’87 con “Signor no”, brano antimilitarista autoprodotto per mia volontà. I discografici ci dicevano: siete molto bravi ma dovete cantare in inglese, il Rock è in inglese. Invece a me, già da piccolo, mi piacevano i gruppi new wave degli anni ‘80: Litfiba, Diaframma, Moda – senza l’accento –, i CCCP – che erano post-punk. Queste band cantavano in italiano. Io mi dicevo, perché non si può fare un rock, anche quello più duro, in italiano. Già nel ’90, “Colori che esplodono” divenne il disco dell’anno per la critica. Fu un impulso… Eravamo allora noi, Ritmo Tribale e pochi altri a fare queste cose.
E poi molti gruppi iniziarono a cantare in italiano, anche le band che cantavano in inglese come La Crus, gli Afterhours dopo qualche disco cominciarono a cantare in italiano. Direi che “Colori che esplodono” e poi il grande successo di “Viaggio senza vento” del 93 diede impulso anche ai discografici, tant’è che oggi ti dicono che il rock va cantato in italiano… e a me viene voglia di iniziare a cantare in inglese [ride]…
– In un artista non c’è mai una divisione netta tra vita ed arte. Quanto c’è nella tua musica degli ultimi anni della tua ricchissima vicenda umana?
Io sono completamente alienato nelle mie canzoni; la mia vita è tutta nelle mie canzoni. “Cane sciolto” dimostra proprio questo. Ogni capitolo è una canzone. Quindi l’alienazione della vita dell’artista nella sua Arte. Mi è impossibile fare diversamente. Anche Fellini disse: “Sono biografico anche quando parlo di una sogliola”. Penso che questa frase di Fellini mi appartenga pienamente.
– Come nasce una canzone di Omar Pedrini?
Una mia canzone nasce dalle mie esperienze, dalla mia vita. Scrivo sempre prima la parte musicale – melodica e armonica – e poi vengono le parole. Il testo è il modo di far capire quello che già esprimo con la musica.
– Oggi che musica ascolti? C’è qualche musicista o gruppo di questa ultima decade che segui…?
Mi rifugio sempre nei classici. Io ascolto di tutto. Ascolto anche jazz. Io ho studiato jazz sei anni. Ascolto musica classica. A Milano mi capita di andare all’Opera alla Scala. Poi delle nuove band c’è qualcosa che mi piace. Oggi siamo sommersi dal rap, dalla trap. Insomma, quelli fighi ritengono che queste siano le nuove tendenze. Però, il mio approccio è sempre rock. Ascolto band di quel mondo, ce ne sono molte che mi piacciono… anche se direi che con i Radiohead si è chiusa la stagione delle grandi band, quelle che durano per sempre, secondo me. Però ci sono ottimi prodotti. Anche in Italia sento delle cose buone. Certo nel decennio ’90 quei sei, sette grandi gruppi hanno saputo creare una scuola. Ormai sono tutti contro tutti.
– Omar, negli ultimi tempi sei “on the road” portando in teatri, librerie, associazioni culturali la tua musica. La formula è quella dell’acustico (o unplugged). Cosa puoi dirci di questa scelta espressiva?
Diciamo che la mia chitarra è il piffero magico del Pifferaio Magico per far sì che i topolini seguano la musica e poi incontrino i libri, la cultura, poesie, l’arte, i quadri… Quindi il gioco è proprio questo. Io sono un figlio postumo della Beat Generation. Il mio rapporto con Lawrence Ferlinghetti lo conoscete, quindi diciamo che il reading è sempre stato una formula che ho fatto mia fin dagli inizi coi Timoria ed ho portato avanti sino ad oggi, così come la contaminazione tra le arti.
– Il 17 maggio sarai a Roma al Largo Venue (via Biordo Michelotti 2) in una serata ideata da Rome Music Experience e Maskara Night. Qualche anticipazione per soddisfare la curiosità della tua tribù romana…
Chi verrà a Largo Venue troverà un concerto unplugged dove ripercorrerò tutta la storia della mia carriera, e qua e là non mancherà qualche lettura di “Cane sciolto”, delle mie poesie, o meglio ancora degli autori che amo di più: da Pasolini a Neruda, Majakovskij, Kavafis… insomma, tutti quelli che mi verranno in mente. Improvviserò al momento. Quindi una bella serata in chiave acustica…
Omar grazie della disponibilità. Buona Musica!