Quando e come comincia la tua avventura di musicista?
Inizia nei primi anni ’80. Eravamo un gruppo di amici appassionati di musica. Come spesso accade si inizia strimpellando in casa con un paio di chitarre acustiche, e all’epoca ci registravamo con un piccolo portatile a cassette. Appuntavamo delle idee con il sogno di riuscire a registrare un giorno in un vero studio. All’epoca non esisteva l’home recording, nascevano i primi multitraccia a cassetta, ma ancora non ne possedevamo uno. Dopo qualche anno avevamo messo da parte i soldi sufficienti per registrare in un vero studio. Fu così che ci recammo allo studio “GAS” di Firenze; lì ci ascoltò Alberto Pirelli che stava per fondare una delle prime etichette discografiche di quel periodo: la I.R.A. Ci fu proposto di farne parte insieme ai Litfiba, e noi accettammo.
Parlaci dell’esperienza coi Moda, e degli umori di quella mitica scena new wave di quegli anni…
Abbiamo avuto la fortuna di poter mescolare il nostro entusiasmo, tipico di quando si inizia, con un’energia molto forte che aveva invaso l’Italia come il resto del mondo. La New Wave nasceva in quegli anni e anche il nostro paese si dimostrò capace di stare al passo con i tempi. C’erano gruppi che nascevano, etichette discografiche e locali che tentavano di aprirsi e di promuovere quella che era una rivoluzione musicale che estendeva le sue propaggini alla moda, al cinema, alla letteratura, al teatro. Per molti gruppi musicali nascenti in quel periodo c’era la sfida di cavalcare quella nuova ondate musicale cantando in italiano. Fu così che Alberto Pirelli coniò lo slogan “Il nuovo rock italiano cantato in italiano”. Non era facile adeguare la sonorità della nostra lingua a quella musica, ma questo permise a molti gruppi di essere assolutamente originali e particolarissimi nel panorama nostrano.
Noi provavamo in una cantina in via De’ Bardi al numero 32. Era la sala prove dei Litfiba, che ci proposero di condividere per pagare a metà l’affitto. Un posto malsano privo di finestre ricoperto di sacchi di iuta dove all’interno era stata stipata lana di roccia per creare un isolamento acustico. Praticamente ci abbiamo vissuto cinque anni. Lavoravamo tantissimo in quegli anni, non eravamo mai abbastanza soddisfatti delle prove, delle composizioni, di noi stessi. Eravamo estremamente seri nell’affrontare la musica e difficilmente ci accontentavamo.
Abbiamo girato tutta l’Italia, la Francia, la Spagna prima con una vecchia Peugeot ereditata dai Litfiba. Mancavano alcuni finestrini sostituiti da del cellofan tenuto con lo scotch, e sopra nel portapacchi avevamo un cassone in legno con dentro la strumentazione. Poi ci siamo comprati un vecchissimo furgone Ducato che andava al massimo ad 80 all’ora, con tutta la fiancata destra tenuta da fil di ferro perché si apriva come una scatola di acciughe. Devo dire che sono stati anni duri, ma intensi. Ne ho un bellissimo ricordo ma non li rivivrei una seconda volta per tutto l’oro del mondo.
Raccontaci di quell’incredibile incontro artistico ed umano con Mick Ronson (storico chitarrista di Bowie) che produsse il vostro album “Canto pagano”…
Sicuramente uno degli incontri e collaborazioni più belli della mia storia. Mick Ronson si è dimostrato uno straordinario compagno di viaggio. Come un vero produttore deve fare, ha saputo trarre da noi il meglio. È stato emozionante condividere con lui lo studio di registrazione e un appartamento dove abbiamo vissuto a Torino nel periodo delle registrazioni. Un grandissimo lavoratore con un approccio verso la musica di grande serietà. Abbiamo composto insieme anche un brano dal titolo “Malato” che lui vedeva come possibile singolo del disco. Vederlo suonare insieme a noi, lui che aveva lavorato con David Bowie, Lou Reed, Bob Dylan ecc., sembrava di vivere dentro un sogno. Eppure si era innamorato dei nostri brani e volle produrli tornando appositamente dagli Stati Uniti. Una grande lezione di professionalità e di umiltà.
Poi comincia il tuo ricco e cangiante viaggio da cantautore, dall’album “La maschera del corvo nero”, passando per una colonna sonora teatrale con Antonio Aiazzi dei Litfiba (“Chaka”), stupendoci, poi, con una tua versione di “Escluso il cane” di Rino Gaetano e così via. Le parole che mi vengono in mente sono: “sperimentare, osare, rischiare”…
Senza dubbio il lato della sperimentazione è quello che mi intriga maggiormente nella musica e ancor più nella formula “canzone”.
La canzone è in costante evoluzione e credo sia importante uscire dagli schemi dettati dalla strofa e ritornello cercando nuove strutture fuori dalle regole. Se non possiamo osare in campo artistico, dove mai potremmo osare? Il linguaggio cambia e si evolve e quasi mai il mercato è pronto a recepirlo… per questo molti non osano preferendo stare nei canoni. Allo stesso tempo non credo che si possa decidere ad un certo momento di sperimentare, credo che chi sperimenta e supera le regole abbia un’indole particolare alla quale non sa sottrarsi. Non può farci niente, è più forte di lui, come quegli escursionisti che si avventurano fuori dai sentieri battuti per trovare nuove vie e nuove terre. Per quanto mi riguarda ho sempre bisogno di sorprendermi nel mio lavoro, cerco sempre nuove esperienze che possano darmi nuovi ed inaspettati input. Credo di non aver mai fatto un disco uguale all’altro ed è così che sono passato dal rock al cantautorato, dalla colonna sonora alle installazioni, dal cinema al teatro trovando in ognuno di questi campi nuova linfa per crescere e maturare artisticamente. Nel mio piccolo ho cercato di non risparmiarmi mai e di non sedere mai su una meta apparentemente raggiunta.
L’ultima metà degli anni 90 è altrettanto complessa e proficua: collabori per il cinema realizzando la canzone “Black Hole” per il film “Sono pazzo di Iris Blond”, partecipi al CD tributo di Ivano Fossati, e comincia la collaborazione con l’attore Fernando Maraghini. Cosa puoi dirci di questa fase?
La canzone “Black Hole” non è mia, ma di Lele Marchitelli, io l’ho solo interpretata nel film per il quale era stata scritta. Ho dato la voce a Carlo Verdone nella scena finale di “Sono Pazzo di Iris Bond” dove interpreta un cantante. Mi sono divertito molto a farlo.
Gli anni ’90 sono stati anni in cui ho ribaltato la mia storia. Mi sono trovato a fare il solista dopo aver concluso gli anni ’80 che mi avevano visto cantante dei Moda.
Sono stati anni pieni di soddisfazioni, ma anche molto difficili, davvero tanto difficili. Ho sofferto molta solitudine. Ricordo che un giorno di dicembre, era il 1989, lasciai i Moda. Quello stesso giorno anche Gianni Maroccolo lasciò i Litfiba e fu così che qualche mese dopo ci trovammo insieme a lavorare al mio primo disco da solista “La Maschera del Corvo Nero”. Iniziarono altre collaborazioni in campo teatrale e musicale, ma nonostante una partenza che sembrava dettare un futuro interessante, ci fu presto un arresto. “La Maschera del Corvo Nero” non aveva dato quei frutti che tutti speravamo ed io mi trovai completamente abbandonato a me stesso. Avevo composto un nuovo disco “L’Albero Pazzo”, ma non trovavo chi fosse disposto a pubblicarlo. Fu lì che mi venne in soccorso David Sylvian con il quale iniziò una collaborazione che riaprì le porte del mondo delle etichette indipendenti e il disco uscì per il C.P.I.
A ruota realizzai con Fernando Maraghini il “Qohelet” un disco basato sull’omonimo libro biblico unendolo a testi di Ungaretti e Pessoa. Un percorso fatto di suoni e parole dove le canzoni erano i pilastri di un ponte sospeso da terra. È stata un’esperienza importante che ha cambiato la mia visione sulla musica abbattendo alcuni cliché. Insomma, gli anni ’90 sono stati ricchi di esperienze, ma allo stesso tempo bagnati di sofferenze. Quest’ultime credo che appartengano a chiunque intraprenda un percorso artistico.
Il nuovo millennio inizia per te con un progetto ambizioso: “Il Porto Sepolto” in cui interpreti, cantando, alcune poesie di Giuseppe Ungaretti. Come sei arrivato a pensare e a compiere questa sfida?
Fu grazie a Franco di Francescantonio un attore di teatro che mi commissionò per un suo spettacolo una poesia in musica. L’idea mi piacque e provai con “Vanità” di Giuseppe Ungaretti. Mi venne poi il desiderio di provare con altre poesie dello stesso autore, e così è nato un gruppo di canzoni minimali per pianoforte, chitarra (suonata magistralmente da Massimo Fantoni che ha composto insieme a me alcuni brani) e quartetto d’archi. Lo spettacolo ha debuttato nel 2000 e poi è diventato un disco uscito nel 2002 per Audioglobe/Santeria. La poesia è strettamente unita alla musica e ho lavorato cercando di scovare le note racchiuse in quelle parole. La poesia di Ungaretti è estremamente scarna, ma allo stesso tempo le parole hanno il peso di macigni e così ho cercato di essere il più minimale possibile, non aggiungendo gravità a gravità, sorreggendo quelle parole con un canto leggero che non sopraffacesse i versi e tanta bellezza. Inizialmente ho temuto di rovinare qualcosa di già perfetto e lì mi sono accorto che stavo realmente osando, ma sono contento di aver avuto il coraggio di arrivare in fondo.
Nel 2004 esce “Vietato morire”, nel 2005 scrivi un racconto – “Il fiume perduto” – pubblicato nella antologia “Voci di fiumi”, del 2008 è il progetto ChimentidanzaSilenda, chiude la decade degli anni “zero” il disco “Tempesta di fiori”. Che dire…?
Tra i dischi che ho fatto, “Vietato Morire” resta uno dei miei preferiti insieme al “Porto Sepolto” e “L’Albero Pazzo”. È stata una decade importante che ha aperto un secondo capitolo che forse non si è ancora concluso.
Anche gli ultimi anni sono nel segno del cambiamento e della sfida, tra documentari – “Ungaretti sul Carso” –, un romanzo – “Yuri” –, la tua partecipazione come attore al cortometraggio “Stella 1”, e nel 2015 il nuovo album: “Yuri”. Abbiamo dimenticato qualcosa…?
Ho trascorso un periodo di grande cambiamento nella mia vita che mi ha portato ad isolarmi per alcuni anni. Ho vissuto in campagna, senza Internet, senza televisione e ho passato molte notti insonni che ho sfruttato per scrivere un romanzo che mi frullava in testa da tempo: la storia di un adolescente di nome Yuri. Il vuoto adolescenziale a cui assistiamo mi è sempre stato a cuore e così ho raccontato la vicenda di questo giovane a cui era stata depredata la vita. Il romanzo è uscito nel 2014 per la casa editrice Zona. Un anno dopo ho realizzato il disco “Yuri” ispirato al romanzo. È stato un momento importante perché è stato prodotto artisticamente da Davide Andreoni e Francesco Chimenti che è mio figlio. Un disco molto denso, sia nei testi che negli arrangiamenti. Se lo riascolto oggi mi ricala nell’atmosfera di quel periodo, molto scuro, un profondo autunno nel quale non vedevo spiragli di luce.
E dulcis in fundo (ma è solo l’inizio mi viene da dire) l’esperienza “Chimenti canta Bowie”, che ti sta portando in giro per l’Italia. Nel contempo prepari un nuovo album. Parola a te…
L’esperienza del live dedicato a David Bowie è nata nell’anno 2015, quando mi è stato proposto di cantare alcune sue canzoni in un contesto molto particolare. La serata consisteva nell’esecuzione con un quartetto d’archi di Prokofiev, Beethoven e lo stesso Bowie. Ho accettato perché mi sembrava un’idea bellissima quella di abbattere gli steccati musicali e proporre tre autori 800/900. Mi piaceva molto poter accostare David Bowie ad autori classici di così grande fama. Una trasgressione che abbatteva ogni muro stilistico e di genere, proponendo semplicemente “grande musica”. Accompagnato da Francesco Chimenti e Davide Andreoni insieme al quartetto “I Nostri Tempi”, la serata si è svolta al Museo del Novecento per l’Estate Fiorentina. Una serata che hanno continuato a richiederci in molte altre occasioni. Sono felice di aver iniziato questa avventura prima della morte di Bowie… probabilmente dopo non mi sarei sentito di mettere in piedi questo progetto. Ad ottobre del 2017 è uscito il doppio live di questo concerto che si intitola “Andrea Chimenti canta David Bowie” per la Contempo Records.
Sempre per la Contempo è uscita agli inizi dell’anno la ristampa di “Canto Pagano” dei Moda. Ora eccomi al lavoro per il nuovo album del quale non anticipo nulla. Ho terminato di comporlo ed è in attesa della produzione. La data d’uscita è ancora da stabilire.
Andrea grazie per la disponibilità. Buona Musica!
Giulio Della Rocca
PH @Bring_out (Fabiola Troilo)