CONVERSAZIONI…
Così parlò Capovilla
Pierpaolo Capovilla è una delle figure più importanti della scena rock italiana. I suoi progetti artistici – One Dimensional Man e Il Teatro degli Orrori – hanno fortemente influenzato e segnato gli anni 90 e la decade successiva…
– Pierpaolo come ti sei avvicinato alla musica, sia come fruitore che come musicista?
Da bambino facevo impazzire mia madre sbattendo le pentole. Da fanciullo mi innamorai perdutamente dei Supertramp di Breakfast in America. Da ragazzo scoprii il progressive rock dei Genesis, degli Yes e dei King Crimson. Da adolescente il punk e l’hard-core. È stato un percorso avvincente di amori e disamori; suonai per la prima volta dal vivo a sedici anni.
– Negli One Dimensional Man i tuoi testi erano scritti e cantati in inglese. Perché questa scelta, e quali sono le differenze poietiche e comunicative tra la nostra lingua e l’anglosassone?
Non faccio mistero del fatto ch’io non ami scrivere e cantare in inglese, non più. L’inglese è, per me, una mediazione fra ciò che voglio dire e ciò che dirò. Ma al di là delle mie idiosincrasie, c’è pur sempre un aspetto che resta fondamentale, ed è il contenuto. Che sia in inglese o in italiano, è cruciale che la canzone possegga ed esprima un contenuto narrativo forte e significativo.
N.B. Nella tua domanda c’è scritto “differenze poietiche”. Se intendi davvero il concetto di “poiesi”, direi che dal punto di vista delle opportunità creative, non vedo grande differenza fra l’inglese e l’italiano: l’importante è essere consapevoli delle parole che si scelgono, una per una. Se invece intendevi “differenze poetiche”, allora devo ammettere che l’ambizione poetica la posso perseguire solo con il mio idioma, l’italiano.
– Nel 2005 vede la luce il nuovo progetto – “Il Teatro degli Orrori” – che sa già dal nome di dichiarazione d’intenti, di manifesto, se non politico, estetico-etico. Nomen omen…
Esattamente. Come per One Dimensional Man, il nome del gruppo è una dichiarazione di intenti. Nel caso de Il Teatro degli Orrori, il riferimento etico-estetico è rappresentato dalla teoria del teatro di Antonin Artaud, che ambiva ad un radicale e rivoluzionario “teatro di scena”, contro il “teatro di prosa”, rassicurante e piccolo-borghese. Nel caso di One Dimensional Man il riferimento è rappresentato dal saggio filosofico e politico di Herbert Marcuse, uno dei padri nobili non soltanto del marxismo della seconda metà del novecento, ma anche e soprattutto della rivolta studentesca del sessantotto. I giovani studenti di Berkley se lo tenevano in tasca come segno di riconoscimento politico, un po’ come i nostri ragazzi maoisti se ne andavano in giro a bella posta con il Libretto Rosso.
– Quando ascolto le vostre canzoni, quando penso alla vostra esperienza artistica mi sovviene la massima di Bernard Shaw: “Il teatro è sempre un comizio”. Parafrasando il maestro: la vostra musica è di fatto un comizio civile, culturale, sociale. Penso alla canzone “Una donna”, ad esempio. Sintesi perfetta, secondo il sottoscritto, della vostra potenza musicale e testuale…
Condivido la massima di Shaw. E condivido anche la tua considerazione a proposito di “Una Donna”. In quel caso, come credo in molti altri, la tensione narrativa cerca di farsi discorso politico, testimonianza, comizio, appunto.
– Al di là della musica, o meglio, parallelamente alla musica, c’è il teatro… Vedi soluzione di continuità fra le due attività? O le vivi come complementari forme di comunicazioni?
Per come la vedo io, un concerto rock è una rappresentazione teatrale. Naturalmente con caratteristiche specifiche e precipue, ma pur sempre teatro. La caratteristica in comune fra le due espressioni artistiche è il palcoscenico, nel quale vivere un momento di vita veramente vissuta, un momento di verità, di autenticità dell’esistenza.
– In questi ultimi anni stai portando in scena, con il compositore Paki Zennaro, “Interiezioni”: un reading musicato delle parole di Antonin Artaud tratte da “Succubi e Supplizi”, che l’autore francese scrisse nel 1946 fra un elettroshock e l’altro, nel manicomio di Rodez. Sappiamo che da sempre porti avanti la battaglia per l’abolizione della contenzione meccanica in psichiatria. Questa opera è figlia di questo tuo impegno, ma ha anche un evidente valore artistico. Vuoi dirci qualcosa di più?
“Interiezioni” nacque proprio in relazione alla Campagna per l’Abolizione della Contenzione Meccanica, promossa da Forum Salute Mentale, un’associazione di psichiatri e operatori sanitari, democratici e basagliani, contrari alla neo-manicomializzazione della cura mentale. Cercavo uno spettacolo adatto all’obiettivo politico, e in “Succubi e Supplizi”, dal quale sono tratte le poesie di “Interiezioni”, ho trovato esattamente ciò che cercavo. Artaud fu figura paradigmatica e vittima eccellente dell’ideologia psichiatrica del novecento, e in particolare della sua deriva manicomiale. Voglio ricordare che l’Italia è l’unico paese al mondo ad aver abolito i manicomi, ma, come diceva lo stesso Franco Basaglia, ispiratore della legge 180, il rischio che il manicomio si ripresentasse in forme nuove e magari anche più subdole, sarebbe rimasto presente. Basaglia e il suo gruppo seppero infatti farsi “minoranza egemone”, in quegli anni si diceva così, e grazie ad una straordinaria spinta sociale, era il 1978, seppero cogliere l’occasione per imporre alla psichiatria i valori e i principi della Costituzione Repubblicana. Oggi la situazione è profondamente deteriorata. Accade quindi che nei SPDC (Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura) dei nostri ospedali si leghino i pazienti, per imporre loro la sedazione farmacologica. Accade che attraverso la pratica del TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio) si internino con la forza i pazienti, con gravissima offesa dei loro diritti democratici e umani tout court: la pratica del TSO è cruciale nella Legge 180, perché è proprio grazie ad essa che il manicomio viene chiuso e abolito, ma era ed è intesa come pratica del tutto eccezionale, e comunque strettamente regolata da un sistema di garanzie che attribuisce al soggetto sofferente la piena fruizione di tutti i suoi diritti, umani, civili, democratici, e di cittadinanza. Nel tempo il TSO è diventato una pratica usuale, quasi di routine, che umilia e ferisce il paziente tanto dal punto di vista etico e morale, quanto da quello specificamente medico, lo costringe a curarsi, e in questo processo di costrizione, prima lo spinge verso la farmacologizzazione del disturbo o della sofferenza psichica, poi lo trascina nella stigmatizzazione sociale, emarginandolo ed escludendolo nella e dalla società. L’argomento è complesso e delicato, certo, ma non di meno è politico, e chiama in causa il sacrosanto diritto del cittadino ad una cura giusta, proporzionata, ragionevole, e mai e poi mai lesiva della sua dignità. Accade invece che molti psichiatri e operatori sanitari facciano il proprio lavoro nella più totale indifferenza nei confronti del paziente, e spesso nel disprezzo schizoide dello stesso. Anche se in Italia le condizioni in cui versa la pratica psichiatrica sono ampiamente migliori di quelle della stragrande maggioranza dei paesi (nel Regno Unito, come in Francia o in Belgio, in Germania e persino nei paesi nordici, sono scandalose, per non parlare degli USA, dove assistiamo a qualcosa di simile all’eugenetica nazista), questa situazione deve finire. Quando leggo in pubblico i versi di Artaud – quanto di più collerico si possa immaginare – affiora, in tutta la sua chiarezza, l’anima buia, grottesca e spaventosa, dell’istituzione totale, quella che Erving Goffman chiamava “universo concentrazionario”. Gli astanti ascoltano, sbarrano gli occhi e, turbati, alla fine piangono. È la straordinarietà della poesia, che quando è vera e grande diviene “parresia”, va dritta al punto, al cuore delle cose e delle circostanze, e non ti lascia scampo.
– Pierpaolo, quali sono i tuoi prossimi progetti musicali e teatrali?
Insieme ad Emidio Paolucci, poeta pescarese, condannato a ventisei anni di carcere e per questo detenuto proprio nella Casa Circondariale di Pescara, sto progettando un’opera rock con le sue poesie. Sarà una splendida occasione per parlare di carcere, raccontandolo dal di dentro. Emidio ha trovato nella poesia un’espressione di vitale libertà interiore. Il mio desiderio è scarcerare quell’espressione, e portarla vicino a noi, nelle nostre vite libere. È un progetto ambizioso, che io sento assolutamente necessario.
In Maggio uscirà il secondo album di Buñuel. Lo ha mixato e prodotto Xabier Iriondo, e sarà pubblicato da La Tempesta International e Goodfellas. Nel frattempo scrivo un romanzo; mi piacerebbe parlartene, ma sono ancora in alto mare. Sarà un romanzo autobiografico, ma interamente immerso nelle circostanze storiche dell’oggi.
ALCUNI RIFERIMENTI:
http://www.news-forumsalutementale.it/
Pierpaolo grazie per la disponibilità. Buona musica!
Giulio Della Rocca